Metterci il cuore

2 gennaio 2017

Due giorni dall’inizio del nuovo anno, e io che non faccio mai bilanci per iscritto stavolta ho voglia di tirare un po’ le somme.

Sarà che a breve mi arriverà il resoconto annuale delle statistiche di WordPress, con i dettagli degli accessi a questo blog, che confermeranno la mia natura a-social.

Sarà che il mio 2016 è stato un anno memorabile, sotto tanti punti di vista.

Sarà che ho chiuso e sto affrontando tanti sospesi… e che questo blog rientra appunto tra le zavorre di cui credo di poter fare a meno nell’anno nuovo.

Nel 2016 ho pubblicato qui soltanto due post, uno a gennaio e l’altro a febbraio; dopodiché, il silenzio. Ma nel frattempo ho scritto e pubblicato, perfino tradotto altrove: su e per Medium, Twitter, Abbiamo le Prove, Fazi, servendomi di forme e piattaforme a me più congeniali. Luoghi pur sempre virtuali ma con un loro calore di fondo, dove avevo e ho ancora voglia di scrivere, di comunicare, di lasciare tracce che, a sentire le reazioni e i commenti, hanno toccato il cuore a molti.

Perché io per prima ci ho messo il cuore.

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Henri Matisse, Icaro

Questo blog, invece, un cuore non ce l’ha più. Specie dopo la pubblicazione del libro omonimo, se lo è perso per strada, post dopo post, e al suo posto sono subentrati testa, smania di copyare, giochi di parole, citazioni… tutte cose anche piacevoli ma, gratta gratta, vuote. Che non toccano e non lasciano traccia.

…her heart wasn’t in it”: “…lei non ci metteva il cuore”. Traduco molto alla lettera, pescandola a caso (anche se al caso ormai non credo più), una frase dal secondo libro che sto finendo di co-tradurre insieme a @ennemme (co-tradurre libri “veri”, di carta, per un vero editore: una bella sfida e soddisfazione nel 2016). Metterci il cuore, ascoltare di più la pancia evitando di disperdere le mie energie vitali, è diventata ormai un’esigenza imprescindibile.

Per questo, la copydimare resta su Medium e Twitter, ma chiude “Lo scopriremo solo scrivendo”, ringraziando il suo pubblico a suon di musica. E per il 2017, vi rimanda al suo nuovo sito in costruzione, copydimare.com, e ad altri progetti di scrittura ancora troppo embrionali per volerne parlare adesso.

Siti e progetti ancora tanto, tanto incompleti e imperfetti (non lo siamo sempre tutti?), magari più sofferti, ma in fondo più sentiti e autentici… più vivi.

https://www.youtube.com/watch?v=l6brhcxdKKo

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Prodotti col sorriso? Merito (anche) del copy

24 febbraio 2016

L’ultimo post di Ideawriter, irretito dallo smoothie col berrettino di lana, ha confermato una sensazione che avvertivo già da tempo, espressa alfine dalla seguente domanda: “Ma i pubblicitari, i copy di oggi: ce ne sono ancora di capaci di far sorridere, nel senso buono e intelligente del termine? Intendo, senza facili cinismi e prese per il culo?”
Credo proprio di sì. Specie quelli che si impegnano nella difficile ma stimolante arte del naming, del payoff e che addirittura scrivono body copy da appiccicare su etichette e packaging di prodotto. Esistono!, esiste ancora qualcuno che lo fa! E che lo fa bene, cosa che mi riempie di allegra invidia.
Tre esempi in ordine sparso:

Ciak, la mia irrinunciabile agenda giornaliera ormai da anni: impagabile il suo payoff Everybody Notes!, puntigliosa senza essere noiosa la sua storia nel leaflet che l’accompagna — e che, ahimé, non riesco a buttare via, aumentando così inesorabilmente il livello di entropia della mia scrivania.
Melileggi?, ovvero le finte pappe libresche della Biblioteca San Giorgio di Pistoia, segnalate oggi da “Il Libraio”. Incantata dall’idea e dalla sua realizzazione, nonché da naming e bodycopy curatissimi.
ZeroTubo, la geniale carta igienica a marchio Coop che qualche giorno fa mi ha “chiamata” dallo scaffale, inchiodandomi con poche, precise, simpatiche parole.

Ma quanto devono essersi divertiti i loro copywriter? Chapeau e sorrisi a voi, sconosciuti colleghi.

Blog fermo? Cherchez le livre…

5 gennaio 2016

La scorsa settimana, leggendo il puntuale consuntivo della mia attività su WordPress nel 2015, la realtà dei fatti mi è balzata agli occhi, pur se parzialmente attutita da simpatici, originali paragoni e picchi lusinghieri: nell’anno appena trascorso, ho postato su questo blog soltanto 4 – dico 4! – articoli.

Colpa del libro, quel libro che ne porta il titolo senza ricalcarne fedelmente i contenuti. A fine aprile, l’uscita in ebook e su carta di “Lo scopriremo solo scrivendo”, complici la competente testardaggine dell’agente letteraria Anna Mioni e la disponibilità dell’Ideawriter Marco Fossati (il quale, con i suoi apprezzatissimi Undici irresistibili motivi riportati anche in quarta di copertina, dava alle mie 200 pagine un’appetitosa impepata propiziatoria), rappresentò il sospirato compimento di anni di stesure, ripensamenti, fatiche, lacrime e risate.
Nei mesi a seguire, con mia grande sorpresa, l’aspetto ludico della scrittura e soprattutto della sua presentazione al pubblico si sono ripresi il giusto spazio e tempo, facendomi scoprire nuovi aspetti del testo… e di me. Questo anche grazie all’incontro con una serie di relatori, che per la maggior parte non conoscevo personalmente ma che, per un motivo o un altro, mi erano stati suggeriti da contatti comuni. La curiosità prevalse infine sull’ansia da prestazione e, accettando il saggio consiglio di un libraio indipendente,
“Lasciati qualche buco nero: non prepararti troppo!”,
decisi di seguire il flusso degli eventi, cogliendo di volta in volta l’occasione di conoscere persone che definire “speciali” è poco.

Dagli inizi trepidanti in clima pre-estivo (con relativa soluzione del femminile dilemma Cosa Mi Metto?, che rinviava ad annose questioni sul come ci si vede e come si vuole essere viste: autrici di libri sì, intellettuali sì, ma anche presentabili sotto altri aspetti), a Chieti (mia città natale, dunque potenzialmente benevola) con l’incontro organizzato alla Libreria De Luca, presentata dalla colta, empatica studiosa e autrice Luisa Gasbarri: sentirla tracciare paralleli tra il mio libro e quelli di Balestrini, Ballestra, Volponi, Pontiggia e Murgia, tirando infine in ballo Flaiano e Pirandello, mi fece mancare la voce alle prime battute, salvo poi riconquistare padronanza di me e del microfono, iniziando così a godermi la presentazione fino all’ultima parola, dediche sulle copie comprese.

Cominciai a sentirmi un po’ meno inadeguata, pronta ad affrontare la replica a due settimane di distanza alla Feltrinelli di Pescara, mia città d’adozione – o, meglio, affidataria. E con chi, stavolta? Con un affilato, arguto columnist che avevo letto con piacere fin dai tempi delle prime free press cittadine, e che di articolo in articolo si era conquistato negli anni meritatissime e più quotate collaborazioni con il Fatto, L’Espresso e Repubblica: Maurizio Di Fazio. Ne uscì un dialogo scoppiettante sui vizi (molti) e virtù (poche) dell’editoria, degli scrivani, della città che ancora mi fa sorridere e che fece sor-ridere anche chi intervenne alla presentazione; nonché un contatto affettuoso e duraturo.

Tempo sette giorni e partivo per Castelfranco Veneto, sede legale, amministrativa e creativa del mio editore Andrea Tralli, che aveva organizzato in loco un PandaFest con relative mini-presentazioni di tutti i suoi autori. Abbarbicati su una collinetta di un ridente agriturismo, riparati dallo scroscio improvviso di una pioggia estiva con seguente doppio arcobaleno, illustrai alcuni aspetti del mio memoir a un pubblico di perfetti sconosciuti che, nel corso della cena a seguire, si rivelarono molto amichevoli, quasi familiari.

Di Fest in Festival, arrivò anche fine luglio, con una duplice incursione letteraria in terra teramana nel giro di quattro giorni: prima al Martinbook di Martinsicuro, dove nello scenario agro-archeologico della Torre Carlo V un robusto, occhialuto apparente post-adolescente in t-shirt nera mi sorprese con puntute considerazioni sul mio libro e la sua abilità nel metterlo in relazione con quello di altri autori presenti e dove, (so)spinta dal dedicatario Miglior Nemico, trovai la nonchalance necessaria per salutare Alcide Pierantozzi; poi a Roseto degli Abruzzi, nella curatissima libreria “La Cura” gremita dall’eloquio elegante di Simone Gambacorta, antidoto al caldo torrido e alla stanchezza procuratami da quattro mesi di emozioni consecutive, non ultime la seconda ristampa del mio libro e la (tardiva ma felice) scoperta di una recensione positiva di Loredana Lipperini apparsa su “Repubblica”: ecco allora da dove arrivava quel picco di accessi al blog a maggio… gaudio, giubilo e riconoscenza! Forse sì, mi ero meritata una pausa estiva.

Ad autunno finalmente conclamato, radunate le fila di multipli contatti virtuali e vocali, salii su un Freccia Bianca diretto a Brindisi, arrivando giusto in tempo per la presentazione concordata alla libreria Culturando, propiziata dalla scrittrice e amica Clara Nubile, organizzata dall’operatore culturale Michele Bombacigno (autore di un’altra bella recensione) in seno alla Società “Dante Alighieri”: con la professoressa Sabrina Amorella, inesauribile fonte di domande e riflessioni, e l’attrice Francesca Danese, che mi regalò il piacere unico di sentire interpretati brani del mio libro, si crearono un’alchimia, una simpatia, un’empatia straordinarie, accolte con calore da un pubblico attento e interessato; il tour della Brindisi notturna completò una serata davvero memorabile.

Back home, c’era da concentrarsi sugli ultimi due appuntamenti dell’anno: a novembre, quella inserita nel calendario del FLA – Festival delle Letterature dell’Adriatico, per una matinée insieme alla giornalista Giovanna Di Lello, a sua volta anima del Premio e del Festival intitolati a John Fante, e che con quella di John Fante mise in relazione la mia opera nel corso di una bella intervista; a dicembre, la discussione di “Lo scopriremo solo scrivendo” con lo splendido, eterogeneo gruppo di lettura della Biblioteca Di Giampaolo, capitanato dall’instancabile Nadia D’Onofrio, che tra una pizza e un cocktail mi regalarono nuove prospettive di lettura sul mio libro: pensavo, essendone l’autrice, di conoscerlo a fondo e di avere tutte le risposte – risposte dirette, in particolare, a chi certe meccaniche e situazioni le bazzica per lavoro e per vissuti; invece mi resi conto che il libro “dice” molto anche ai cosiddetti non addetti ai lavori (pubblicitari, editoriali, markettari, cultural-scrivani). E che non sempre si può/deve rispondere a tutte le domande, che è bene lasciare anche aperte le discussioni.

Per tutti questi buoni motivi, e con tre eccezioni: il pezzo “Da cosa nasce… cosa?”, apparso su “Doppiozero” lo scorso giugno; il racconto “Arise and walk”, il mio primo uscito in traduzione inglese sulla mitica Chicago Quarterly Review; e il ricordo familiare “Fuorilegge”, pubblicato sul mio profilo Medium, il 2015 per me è stato un anno di parole parlate (e lette), più che scritte. Anche questo blog ne ha fatto le spese. Ma l’ultima parola no, quella qui non è ancora detta: perciò, stay tuned!

My short story, from an American perspective: Chicago Quarterly Review vol. 20 – Italian Issue

20 Maggio 2015

Published some years ago in its Italian version by Rivista Fernandel, then winner of the Premio Teramo, “Alzati e Cammina” (“Arise and Walk”) it’s a short story of mine that has really gone a long way. Its latest milestone: appearing on the Chicago Quarterly Review, in a special issue devoted to contemporary Italian Literature.
Here it is, freshly pressed! My heartfelt thanks to my agent Anna Mioni, and to the Senior Editor of the journal, Elizabeth McKenzie, for giving me this opportunity and joy.

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Il mio primo libro – adesso anche su carta!

29 aprile 2015

E’ uscito anche su carta finalmente, l’omonimo di questo blog; chissà dove arriverà, insieme alla sua autrice?

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Lo scoprirete solo… leggendo!

27 aprile 2015

Oltre ad essere il naming di questo blog, da oggi “Lo scopriremo solo scrivendo” è anche e soprattutto un ebook! Presto disponibile nella tradizionale veste tridimensional-cartacea — stay tuned :D

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Me parlare verybello un giorno (e David Sedaris non c’entra una mazza)

26 gennaio 2015

Me parlare verybello un giorno (e David Sedaris non c'entra una mazza).

Condivido l’Ideawriter, con un amarcord angloitaliota “very funny”:

Lontano dagli occhi, vicino al cuore

23 dicembre 2014

Da te ho ripreso la somiglianza fisica, e quei pochi lati buoni del mio carattere; tra le scoperte tardive, anche il gusto comune per i giochi di parole e la curiosità per le lingue. Mio caro papà, nel mio primo Natale senza te non farò l’albero, ma mai come adesso che ti ho lontano dagli occhi ti sentirò vicino al cuore.
Per questo ti dedico l’ultima canzone della “pazzarella” — così la chiamavi — che tanto ti piaceva, e questo mio (anzi, nostro!) racconto.

L’albero delle scarpe

“Potrebbero sempre servire”.
La sentenza arrivava quando bisognava decidere se tenere qualcosa o buttarla. Era così che gli oggetti in bilico tra usa e getta si guadagnavano di volta in volta un’altra possibilità, un’altra vita.
Inutile invocare la moda, la decenza o semplicemente la voglia di qualcosa di nuovo. Eri o non eri figlia loro? Se sì (anche se da bambina avevi spesso fantasticato del contrario: una catena di sequestri di persona, adozioni segrete, morti tragiche e improvvise ti aveva condotta lì, a chiamare Mamma e Papà un uomo e una donna che in realtà non avevano il tuo stesso sangue), allora come potevi essere così avventata, così poco previdente, così… cicala?
“La cicala e la formica” non era forse stata la tua favola preferita, da leggerti tutte le sere per insegnarti il valore del risparmio? Mentre la cicala dissennata spendeva, spandeva e sprecava, guadagnandosi la tua segreta ammirazione, l’oculata noiosa formica accumulava, in vista di tempi cupi. Perché erano sempre in agguato, i tempi di magra: ineluttabili e ciclici, come al giorno segue la notte, all’estate l’autunno, all’autunno l’inverno; e allora, prima di buttare via qualcosa bisognava pensarci mille volte, cercare di salvare il salvabile. Un imprevisto, una disgrazia, un evento catastrofico e succhiasoldi poteva sempre capitare: e chi non aveva accumulato risorse per tempo, povero lui!
A questi moniti visualizzavi te stessa nei panni di una profuga di guerra che non aveva più di che vestirsi e di che mangiare. Era quella la fine che facevano le cicale. Dovevi allora convenire che sì, forse era meglio non buttare oggi quello che potrebbe ancora servire domani: un cappotto che ormai ti è venuto a noia ma sai, magari tra qualche anno, complici i corsi e ricorsi della moda…, o un paio di scarpe che hanno iniziato a zoppicare ma che però, basterebbe portarle da un bravo calzolaio e tornerebbero quasi nuove: come una pianta che, dopo stagioni rigogliose, si spoglia delle sue foglie e sembra sul punto di morire, finché una potatura di quelle drastiche ma ben fatte le ridona nuova linfa.
Adesso il giardiniere sei tu. Sei tu che puoi, che devi sfrondare quella casa del vecchio e del superfluo, tagliare i rami secchi prima di affidarla a mani straniere. Cicala di natura, ti è toccato essere formica, ma ora puoi finalmente buttare via, sfoltire, alleggerire quella nuda proprietà del ciarpame, nell’attesa di rientrarci e trasformarla a tua immagine e somiglianza. A che ti servono i giorni di permesso della “104”, sennò? A prenderti cura dei tuoi, ma anche di te in quanto caregiver, come consigliato da manuali e gruppi di auto-aiuto: riservate del tempo a voi stessi, senza sentirvi in colpa. Avete bisogno, anzi il diritto di ricaricarvi.

L’urgenza di un repulisti ti colpisce una sera in cui, saltando da un canale all’altro, inciampi in “Sepolti in casa”, il programma che descrive le vite soffocate degli accumulatori compulsivi. Inorridisci alla vista di quelle montagne di oggetti e dei loro inani proprietari, ma sei anche sollevata: tu non sei come loro. La casa in cui abiti adesso è di una nitidezza zen, pochi mobili tra i quali il feng shui può circolare con agio. Nella nuda proprietà, però, è un’altra cosa. Lì in alcuni punti il cumulo cresce e prospera; in particolare nella tua ex cameretta, adesso diventata stanza di sgombero, intasata degli oggetti più disparati che loro non riescono a buttare via: potrebbero sempre servire.
Inizierai da un sopralluogo, che ti permetta di pianificare una serie di raid sgombratutto. Un po’ alla volta, da formica coscienziosa, da brava figlia, riuscirai ad alleggerire casa; poi la cicala sventata e menefreghista riavrà finalmente il suo spazio. Domattina sul presto farai un giretto esplorativo, non più di un paio d’ore, poi avrai ancora tutta la giornata per te. E sempre sia lodato il promotore della legge 104.
Un oggetto tira l’altro, e il giretto diventa indugio, curiosità, sorpresa, sconforto. A ora di pranzo sei ancora lì, in preda ad un gironzolare inquieto e inconcludente, con una busta di plastica rigonfia appesa al braccio, intenta a frugare in angoli e cassetti dimenticati, a caccia di non sai neanche tu bene cosa. Spazio. Pulizia. Chiarezza. Vita zen, vita semplice, leggera e spensierata.
Hai già raccolto un discreto bottino di calzini scompagnati, ricevute fiscali del secolo scorso e fazzoletti incrostati quando ti decidi ad affrontarla, la scarpiera degli orrori; per un momento ti vedi da fuori, se fossi un regista a quel punto inseriresti un sottofondo musicale alla Dario Argento, degno commento di oscuri reperti calzaturieri appartenenti a un’età remota: quella in cui lui usciva senza accompagnamento, diretto verso molti doveri e pochi piaceri.
Ne esce un odore secco, di sudore antico, veicolato da una cipria impalpabile che si sparge tutt’intorno, placida e inesorabile come una nube tossica. Spalanchi la finestra e ti avvicini di nuovo al mobile, gli occhi strizzati come Indiana Jones all’ingresso del tempio maledetto, all’erta per il primo cobra che gli toccherà ammazzare. Ahhh! Non è possibile, sono ancora lì! Quel paio di mocassini neri con cordoncino in rilievo a sottolinearne la punta, che lo hanno portato a spasso per matrimoni e funerali, immortalati in ogni foto incorniciata d’argento sulla mensola del salotto… quelli vanno proprio eliminati: ora, subito, e sostituiti al più presto con un paio nuovo. Altrimenti, rischia di calzarli anche al suo funerale; e poi te le immagini, le facce dei parenti davanti alla bara mentre gli guardano le scarpe sfondate? Un pensiero che ti colpisce a tradimento e che rapido svanisce, lasciandoti dentro una scia di odio di te.
Allunghi una mano per prenderli e buttarli, ma ti manca il coraggio. Ti sembra incredibile che siano sopravvissuti per decenni su quella mensola, sempre in bilico tra le sommerse e le salvate, immuni dal periodico pogrom che portava le altre scarpe a consumarsi, bucarsi e sparire: loro no, per qualche misterioso motivo sono rimaste lì, seconda mensola dall’alto, in ossequio al motto di chi ha conosciuto la fame e la miseria, e ha incistata dentro quella tendenza a non sprecare, a non buttare, a riciclare che poi si è appiccicata addosso anche a te, e che cerchi invano di scrollarti via ad ogni cambio di stagione: “Potrebbero sempre servire”.
Poi gli anni così ben portati hanno iniziato d’improvviso a manifestarsi, incespicando i suoi passi e strascicandogli l’andatura, moltiplicandogli i dubbi e confondendogli i pensieri, sostituendo all’abitudine quotidiana della lucidatura e cernita delle scarpe la scelta reiterata di quel vecchio paio consumato. Tu intanto, portata dai tuoi anni, dai tuoi dubbi e dai tuoi pensieri, non ci hai voluto fare troppo caso: brava figlia davvero, cicala ed egoista, che non trova neanche il tempo di accompagnare suo padre a comprarsi un paio di scarpe nuove.
Mastichi senso di colpa e pranzo, mentre i tuoi assaporano la tua presenza imprevista regalandoti sorrisi timidi, brani di vecchi aneddoti, generiche domande sulla tua sfera professionale: “Sul lavoro, tutto a posto?”. Certo, certo. Come sempre. Raduni i piatti vuoti, facendo cadere il coltello del pane; ti chini a raccoglierlo vicino ai piedi di tua madre. In effetti, anche per lei sarebbe ora di un paio di pantofole nuove; per lei non è ancora troppo tardi per piacersi e fare scelte consapevoli, in linea con i suoi gusti. Nonostante l’ossessione del risparmio e del riciclo, è sempre stata una gran vanitosa.
In un soprassalto di solidarietà femminile, ti offri di accompagnarla in quel negozio in semicentro: quello col proprietario gentile e paziente, la vetrina affollata di calzature adatte a piedi anziani e un vasto assortimento di pantofole per tutte le età.
“Veramente, servono di più a lui”, risponde. Siamo alle solite, trascura se stessa e le sue necessità per pensare agli altri.
Insisti: “Andiamo, dai, ti accompagno, vedi se trovi qualcosa che ti piace, che ti serve”.
Insiste: “Lui è rimasto senza niente, a parte quelle; non può più uscire con quelle”.
Meglio lasciar perdere. “Magari vado prima io a dare un’occhiata in negozio e poi ti dico”.
“Magari guarda anche per lui”, rilancia. Proprio non riesce a toglierselo dalla testa.

Apri la porta di casa tua con il sollievo di un naufrago a cui hanno lanciato una ciambella di salvataggio. Niente cumuli e accumuli lì, lì ti riconosci, trovi conferma della tua diversità. Sei ormai nello stadio in cui la preoccupazione ha inquinato l’affetto, e il tempo che trascorri con i tuoi è perennemente occupato da rogne, ansie, incombenze piccole e grandi che avanzano di pari passo con la loro perdita di autonomia.
Decisa a non farti sommergere, a non sprecare almeno il pomeriggio di questa benedetta “104”, prepari una lista mentale dei tuoi desiderata.
Scarpe, no: giusto la scorsa settimana te ne sei comprate due paia in quel concept shop fresco di inaugurazione, che sembrava uscito pari pari dal meraviglioso mondo di Amèlie.
Piuttosto un paio di collant in microfibra,
un coordinato intimo,
un maglione di un colore che non hai mai indossato…
…tutto pur di vederti bene, vederti bella, vederti nuova, anche se per poche ore. Tutto, pur di non pensare.
Scarpe no, ma un paio di pantofole sì. È da una settimana che ti infili quelle che lui ti ha lasciato in camera, non è ancora chiaro se come pegno di ritorno o di addio. Nessun mobile le accoglie o nasconde, e non solo perché nella tua linda dimora perfino le scarpiere sono bandite: vederle ogni giorno, avere la prova che lui c’è stato, c’è e ci sarà ancora, assaporarne l’impatto carezzevole nelle albe fredde. Giri e rigiri i piedi in quel maschio velluto a coste e pensi, Questa è l’unica cosa calda di lui che ho.
Tra una pantofola e l’altra si son fatte già le quattro, tra poco i negozi riapriranno: cosa aspetti? Vai a comprarti qualcosa!

La porta della camera da letto è ancora chiusa — da qualche mese, la sua pennichella va sforando fin verso le ore serali. Chiedi lo stesso a tua madre se dorme. Lei capisce, apre la porta e lo chiama piano, con divertita tenerezza, come se invece di un marito fosse un figlio un po’ testone, un bambino ultraottantenne che non vuol saperne di alzarsi.
Dalla montagna di coperte aggrovigliate emerge un brontolio cetaceo modulato su note interrogative. Lo interrompi con il tono più giulivo del tuo repertorio vocale:
“Alzati pà, andiamo a comprare le scarpe nuove!’”.
Lui sospira e si rincalza le coperte sulla testa.
“Dai su, andiamo!, ché si fa tardi”.
‘Fare presto’, ché ‘si fa tardi’: categorie temporali che, a dare ascolto a quella maledetta diagnosi, non gli appartengono più. Invece, il pensiero molesto della fretta gli fa riacquistare d’improvviso volontà e favella:
“Scarpe?? Che scarpe… non mi servono!”.
Tua madre ti soccorre:
“Su, approfitta del passaggio! Anzi, sapete che vi dico: posso venire anch’io?”.
Al che lui capitola immediatamente, e tu cerchi di non pensare a come sarà attraversare la strada con due ultraottantenni in odore di Alzheimer. Angeli custodi, se esistete: datevi una mossa.

Trovi miracolosamente parcheggio in una zona tranquilla, fitta di alberi quasi newyorkesi. Con cautele da artificiere, aiuti i tuoi a uscire dall’automobile. Lei subito a suo agio, zampetta allegra tra le foglie fruscianti dopo mesi di arresti domiciliari volontari. Lui, che di arresti e di arrestati in trent’anni di lavoro in carcere ne ha visti tanti, arranca dietro strascicando i piedi come un galeotto coi ceppi alle caviglie, facendo risuonare ad ogni passo i tacchi consumati delle scarpe: quelle scarpe, quelle nere con il cordoncino in rilievo, che ha calzato a innumerevoli matrimoni – tutti, tranne il tuo – e che prima non hai avuto il coraggio di toccare, figuriamoci di buttare.
In compenso, gli avevi preparato pantaloni, giacca, camicia, cravatta, giaccone, sciarpa perfettamente coordinati, pronti da indossare. Ci tieni che faccia bella figura, infatti poi hai visto come si guardava:
“Questo sono io”,
aveva proclamato riconoscendosi allo specchio dell’ingresso. Speravi mantenesse quella fierezza anche uscito di casa, ma fuori… fuori è un’altra cosa: macchine troppo veloci, luci improvvise e accecanti, rumore-rumore-rumore, una geografia urbana ignota e terrorizzante. Chi me l’ha fatto fare, penserà; ecco, adesso vi starà maledicendo, te e le scarpe nuove. Cerchi di farti perdonare allungandogli un braccio: “Attaccati qua, pa’”.
Fa finta di non sentirti, non lo vuole, non vuole il tuo appoggio, A costo di strascicare i piedi per tutta la città non ti permetterò di fare il bastone della mia vecchiaia. Gli attribuisci dei pensieri che forse lui nemmeno pensa, preso com’è dal non metter piede in fallo, dal non restare indietro: e sì che con tua madre, appesa all’altro braccio, avete già rallentato di molto.
Marciapiedi rachitici punteggiati di cacche di cane e di piccione, la memoria sbiadita di strisce pedonali si stende davanti a voi; lampioni avari di luce, ogni passo dura un secolo, lei fiduciosa al tuo fianco, lui sdegnoso dietro, ti giri continuamente a controllare che ci sia, che non abbia incespicato con quelle scarpe mezze rotte. Hai il terrore che succeda di nuovo. Hai già vissuto quell’odissea, con tua madre che inciampa e piomba a faccia in giù sul pavimento mal piastrellato di un supermercato – lagodisangue, incisivo saltato, faccia livida, commessi allarmati, sguardi pietosi, 118, dolore-paura-punti, dentista, neurologo, riposo & convalescenza, avvocato, controparte, risarcimento, medicolegale, scartoffie, visite-controlli-visite-controlli: non sai se avresti la forza di sopportarla da capo.
Un’ultima curva a gomito prima dell’agognata meta, macchine da dietro, davanti e di lato; ti giri di nuovo e gli tocchi il braccio: “Ehi, qua però devi attaccarti pa’!”
Niente da fare, come se non ti avesse sentita, gli occhi assorti in un punto imprecisato e le mani in tasca. Gliene tiri fuori una a forza: le ha sempre avute caldissime, dei veri termosifoni, accesi al massimo a tutte le ore e in tutte le stagioni, alla faccia delle notti all’aperto a fare la sentinella lungo il perimetro del carcere; ma quella che stringi adesso è inaspettatamente fredda. Tendi le braccia occupate come un vigile improvvisato per interrompere quel flusso di motori, creando un’isola magica dove attraversare incolumi tutti e tre: una piccola catena umana che si snoda a lenti passi verso il marciapiede di fronte.

La vetrina scintilla di precoci luminarie natalizie, ma lui non si lascia abbagliare. Nel mare di scarpe singole disseminate su un’asimmetrica teoria di mensole, ne individua subito una dall’aria familiare: mocassino, nero, ricamo a cordoncino. Non dice niente, ma il suo sguardo è quello di un setter che ha puntato la preda.
“Ti piace, pa’? Allora entriamo così le misuri eh?”
Alla faccia della crisi economica! Il negozio è affollato di anziani irrequieti, alcuni accompagnati altri no. Osservi gli altri caregivers cercando di indovinare chi è figlio e chi no, cerchi e trovi i loro occhi, giusto il tempo di scambiarvi un muto sguardo solidale prima di assistere nel giovanile rituale dello shopping i vostri preziosi fardelli. Dopotutto è un concept shop anche quello, un piccolo mondo di Amèlie alla rovescia, popolato di pantofole e scarpe ortopediche di mille fogge diverse. Incorniciati alle pareti, slogan calzanti blandiscono una clientela particolare:
— AD OGNI PIEDE, LA SUA SCARPA –
— NON TRATTARMI DA MOCASSINO –
— QUI LE PANTOFOLE SONO DI CASA –
addirittura,
— LA PASSIONE MUOVE I NOSTRI PASSI.
Inviti i tuoi ad accomodarsi su un paio di poltroncine imbottite liberatesi all’improvviso, come se il negozio fosse il tuo e loro dei nuovi acquirenti esigenti. Il proprietario gentile a quanto pare non c’è, lo sostituisce il nipote: un tipo tatuato con l’orecchino e la suoneria reggae nel telefonino che squilla e squilla appoggiato sulla cassa mentre lui, cosce piegate a terra come un marines in fase di perlustrazione, infila un paio di stivaletti imbottiti a una vecchietta con le ginocchia venate di blu, costrette da gambaletti a fiorellini. “Orecchino” trasuda da tutti i tatuaggi, nello sforzo di dribblare calli e varicose. “Fiorellino” lo osserva all’erta, in un silenzio compreso nel quale si sente solo lo scivolare del gambaletto nella guaina dello stivaletto.
Approfitti del momento in cui il fresco “fiorellino” azzarda pose strategiche davanti alla specchiera per pararti davanti all’“orecchino” prima che altri ottuagenari possano requisirtelo, e gli indichi il paio prescelto da tuo padre.
“Che numero?”, ti chiede asciugandosi le gocce di sudore dal sopracciglio destro – ha un orecchino piantato anche lì.
Domanda ovvia. Ovviamente, sei impreparata. “Hmmmm… una volta portava il 43… forse però adesso il piede gli si è…” la parola giusta sarebbe ‘rimpicciolito’, ma la sostituisci al volo con “…‘dimagrito’”, che suona meglio, più salutista, meno spaventoso; come se invecchiare non fosse altro che un rimpicciolire progressivamente, fino a sparire. No, non vuoi, non devi pensarlo così: lui è immortale, è Highlander!
“È che i piedi ti sono un po’ dimagriti, pa’, è normale… ecco qua: prova il 42, vedi se ti stanno bene”.
Entrano subito, senza difficoltà: e grazie, sono troppo lente… guarda qua, dietro al tallone puoi metterci un dito! Ci vuole il 41. Il previdente commesso reggae l’aveva già tirato fuori, ma ora sta sudando ai piedi di un’altra vanitosa. Afferri la scatola del 41 e un lungo cuneo plasticato giallo limone abbandonato su una poltroncina e li tendi a tuo padre: gli è sempre piaciuto usare il calzascarpe…
…non si ricorda più come si fa. Armeggia, fallisce, riprova, si spazientisce sotto gli occhi delle sue donne, ritrova finalmente il senso e il tallone, e una volta infilate non vuole più togliersele.
Con tua madre vi guardate, lo stesso sorriso vi illumina la faccia. A dirla tutta, il suo è molto più bello, con denti più regolari e labbra più carnose e definite; che perfino il dentista l’altro giorno, prima della seduta, cercava invano di toglierle il rossetto, finché ha capito che era quello il suo colore naturale. Labbra da baciare!
E papà, quante volte ti ha baciata, mamma? Ti ha mai mangiata di baci? O in cinquant’anni e passa insieme ti ha lasciata ancora affamata d’amore?
Tuo padre con quelle sue labbra sottili, loro sì più simili alle tue… scacci quei pensieri malsani rivolgendoti a Miss Sorriso 1947:
“Adesso che lui è a posto, pensiamo a te.”

Ce n’è voluto per convincerla, ma alla fine ha scelto: un bel paio di pantofole scamosciate bordeaux, ricamate in oro. La sfotti: “Così sembri una papessa!”. Ride con quella sua ghiotta bocca carnosa, accomodata nella poltroncina imbottita come in una sedia gestatoria; se potesse, uscirebbe dal negozio con quelle. Nel frattempo tuo padre, orfano di attenzioni, continua a tirarti per una manica, ripetendo a mo’ di litania la sua domanda impossibile:
“Dove sono le mie scarpe?”.
Maledetta malattia. Lo rimproveri sottovoce, sperando che gli altri clienti non lo abbiano sentito: “Possibile che non le vedi, le hai ai piedi!”, ma lui insiste.
Ma certo, che stupida! Intende il vecchio paio, quello che una volta a casa dovrai buttare… e che, nel frattempo, hai nascosto nella scatola dei mocassini appena acquistati.
“Sono lì, vicino alla cassa; non preoccuparti, tra poco andiamo”.
La scatola è rimasta semiaperta. Soffochi un brivido di vergogna alla vista al neon di quelle suole sformate, dei tacchi consumati fino a metà dal lato esterno: che camminate sbilanciate ci avrà fatto!, poteva inciampare e cadere in ogni momento, cretina che non sei altro!, gli angeli custodi hanno lavorato eccome, anzi hanno fatto gli straordinari!, e di quei fogli stropicciati di carta di giornale che lui piano piano, mese dopo mese, anno dopo anno, ci ha infilato dentro. Senza lamentarsi. Senza dirti niente. Senza chiederti di andare a comprarne di nuove. Per orgoglio. Per pigrizia. Per tirchieria. Per trasandatezza. Per incapacità di intendere, che era arrivato il momento, e di volere, di volerle. Per non farti preoccupare, perché se un piede rimpicciolisce di due numeri che c’è di strano, è l’età: basta aggiungere altra carta di giornale nei mocassini ed ecco fatto, adesso sì che calzano bene! Come nuove. Come se niente fosse. Possono ancora servire.
Dove cavolo eri, tu, mentre lui si infilava i giornali nelle scarpe peggio di un senzatetto? A che cavolo pensavi? Come hai potuto essere così cieca…?
Il rifiuto e la negazione sono la prima reazione, ripetevano gli psicologi agli incontri per i familiari. Poi arriveranno la rabbia, la depressione; infine, svilupperete strategie di compensazione.
Tua madre pare esserci riuscita benissimo: dopo le pantofole da papessa, ha adocchiato un paio di scarpe blu, sportive e con la zeppa. E sia, adesso grazie all’indennità di accompagnamento di lui può anche togliersi lo sfizio di un acquisto d’impulso:
“Si è ammalato purtroppo, ma almeno adesso a fine mese arrivano un po’ di soldi in più!”.
Non sei sicura che ti abbia detto proprio così, quella volta; forse è meglio se non ricordi bene, meglio se non rivanghi troppo la loro storia, le forze che li hanno spinti a fare famiglia, a volersi bene sì, ma non è tutto, non è tutto… se poi manca il volersi mangiare di baci, poi ti porti appresso di riflesso quella mancanza per sempre. Cerchi di sfuggirle in tutti i modi, ti riprometti Io Non farò Così, che sarà sempre e solo la PASSIONE a muovere i tuoi passi, passione pura, semplice e senza infingimenti, e poi ti ritrovi da sola con un paio di pantofole. Mangiati le pantofole adesso, altro che mangiata di baci.

Sistemati loro due, tocca a te adesso, scegliere le tue. Mica male, quel paio di folto velluto rosso fuoco, con una coppia di cuori di vernice cuciti sopra, rivestite di lana: belle calde!
Naaaah, con quelle ai piedi sarai ridicola. Chi ti credi di essere, con delle pantofole rosso fuoco coi cuori di vernice: Amèlie nel suo meraviglioso mondo?
In fondo, però, costano solo dodici euro… più i mocassini di tuo padre, le pantofole e le scarpe di tua madre, fanno… tanto quanto un solo paio di calzature concept. Alla cassa, gli orecchini del commesso scintillano come piccole comete; certo che ha proprio una faccia da folletto.
Fuori dal negozio, è già Natale. Metà novembre, alle luminarie vere e proprie manca ancora qualche giorno, ma tua madre è più accesa che mai. Guardala, com’è contenta delle sue due paia: un’anziana ragazzina che ha appena ricevuto un doppio regalo dalla sua mamma-figlia. “Evviva!”, esclama. Le sorridi. Non male, come strategia di compensazione.
Lui invece non ride, nemmeno sorride. Sembra pensieroso o incazzato, bella gratitudine! Ma no, non devi prendertela, non puoi pensarlo ancora concatenato a una logica di causa-effetto; dovresti saperlo ormai, che vive in una perenne confusione; che il camminare con delle scarpe finalmente della giusta misura, aderenti al piede, le suole bilanciate, gli pare strano, non ci si ritrova, come non si ritrova lì, per strada: sono anni che non esce fuori dal quartiere, e adesso è sera, in una città sconosciuta, col buio che si avvicina. Casa, sicurezza, Natale… per lui adesso sono lontani anni luce. Tocca a te riportarlo alla realtà, rassicurarlo e “contenerlo”, come raccomandato dagli psicologi del gruppo di supporto per familiari. Ricorda, il ‘suo’ albero di Natale non è proprio ‘acceso bene’.
“Immagini un albero di Natale con tutte le luci accese. Adesso immagini che non siano tutte accese, quelle luci, ma che funzionino a intermittenza. E che qualcuna si sia fulminata. E che non ci siano più lampadine di ricambio disponibili. Il cervello di suo padre è messo così. Quello di sua madre, invece, sta un po’ meglio”.
“Grazie per avermi illuminata, dottore”.

Tra qualche giorno, preparerai l’albero. Sotto ci metterai i regali impacchettati, per la gioia dei grandi tornati piccini: montagne di scatole, con dentro scarpe e pantofole che avete usato troppo, o che non userete mai. Perché non tutto può servire per sempre.
Le quattro buste con il logo del negozio di Amèlie ti pesano al braccio, mentre la luce piove in strada dalla vetrina e i loro occhi a corrente alternata attendono i tuoi per tornare a casa.


Dionino Di Muzio, 9.12.1925 – 9.12.2014

Èccerto, ci mancherebbe!

5 settembre 2014

èccerto

Dai a uno sgrammaticato ispirato una bomboletta spray e una saracinesca intonsa: non mancherà di sorprenderti.

A mollo, d’agosto

11 agosto 2014

Domenica sospiratissima domenica, dopo una convulsa settimana ospedaliera risoltasi infine per il meglio. Te li sognavi da giorni, quel mare e quella spiaggia; e finalmente, dopo la prevedibile caccia grossa al parcheggio e relativa camminata interminabile per raggiungere un punto appena un po’ più isolato degli altri in cui piantare l’ombrellone, sei dove volevi essere: a mollo nel mare calmo, alle spalle dune e macchia mediterranea, sul finire di un caldo pomeriggio.
Le membra contratte da giorni e notti preoccupate però non riescono a sciogliersi al primo abbraccio dell’acqua, così decidi di non seguire lui nell’abituale lunga nuotata, ma di restare ferma a sciaguattare in un tiepido amniotico popolato di plancton, alghe e… pipì altrui, ma che importa: vorrà dire che ci lascerai anche la tua! Un pensiero stupido che ti fa spuntare uno stupido sorriso sulla faccia, come non ti succedeva da troppo tempo. La pipì, però, non viene: evidentemente non ti sei ancora rilassata abbastanza.
Lasciando soltanto la testa fuori dall’acqua e il culo appoggiato sul morbido fondo sabbioso, invochi le proprietà osmotiche del liquido marino e, dopo un rapido sguardo di ricognizione a lui che si allontana nuotando e nuotando beato, ti giri verso il bagnasciuga a rimirare i superstiti di fine giornata: famiglie numerose in ordinata smobilitazione tra bambini, ombrelloni, sdraio e borse-frigo; coppie felici che sobbalzano allacciate in baci e abbracci al sapore di sale; coppie infelici ad andatura di bufalo che si scambiano raffiche di botta e risposta (“Io so badare a me stessa!” “Farai pure volontariato, ma resti sempre la solita stronza!”); fanatici del fitness in disarmo, carbonizzati dal sole; badanti multicolore, noncuranti del proprio sovrappeso; coppie di amici in camminata allegra, diretti chissà dove??
Per esempio, quei due ragazzetti: venti-ventidue anni al massimo l’uno, parlottano guardandosi attorno, come in cerca di qualcosa. Si fermano proprio di fronte a te, un attimo appena, giusto il tempo di notare la tua testa che sporge solitaria dall’acqua, per poi continuare la loro passeggiata. Giri loro le spalle, dopo sette giorni di contatti forzati e familiarità sconosciute non hai voglia di interagire con chicchessia: solo scogli, e intorno la superficie ondulata del mare, col suo medicamentoso placante silenzio.
Uno sciaguattare in lontananza ti allerta (eh i nervi, i nervi a fior di pelle dopo una settimana di ospedale!); giri di pochi impercettibili gradi la testa in direzione della spiaggia, e con la coda dell’occhio vedi i due ragazzetti che, tornati indietro, sono entrati in acqua. Mah, pare vengano nella tua direzione, ma magari è solo una tua impressione errata, acuita dallo stress accumulato. Sai cosa? Frègatene, e continua tranquilla il tuo ammollo. Respiri zen, osservandoti la punta smaltata dei piedi affiorante dall’acqua. Sbagli, o adesso è un filo più mossa di prima? Ma no, sono solo i nervi, solo ‘sti benedetti nervi a fior di pelle, stai tranquilla.
Intanto lo sciaguattare si è fatto più vicino. Tranquilla un cavolo. Presentendo rogne, ti affretti a srotolare gli occhialini che hai avvolti al polso per poterti allontanare a nuoto, magari incontro a lui che, pare, stia virando all’indietro per rientrare, cambiando lo stile da crawl a dorso. Ma non finisci neanche di rimetterteli per bene in testa che due ombre ai lati delle spalle ti salutano, facendoti sobbalzare. Sono vicinissimi, uno alla tua destra l’altro alla tua sinistra, due indesiderati angeli custodi; calcoli al volo le distanze reciproche, tra voi lo spazio di una sola bracciata: troppo poco rispetto alle tue preferenze prossemiche.
“Ciao!”. Capello rasato biondo scuro, limpidi occhi verde mare, lineamenti regolari, denti candidi su sorriso sfrontato, corpo aggraziato quasi efebico: il fidanzatino, il figlio che tutte vorrebbero avere. Un incanto, se non fosse per quell’espressione morta negli occhi.
“Ciao!”, gli fa eco l’altro, capelli e occhi scuri, corpo snello appena più alto e robusto dell’amico, sorriso divertito rivolto a te, che li guardi male e sibili di rimando un “ciao” scocciato e interrogativo, mentre cerchi di infilarti una buona volta i cavolo di occhialini.
Sulla spiaggia, mancoaddirlo, non è rimasta anima viva. E lui, lui dov’è finito? Chissà dov’è arrivato a nuoto adesso, e poi non ti vede mica, preso com’è dalle sue bracciate a dorso.
“Sei sola?”, ti chiede il primo, continuando a sorriderti con gli occhi freddi e muovendo un ulteriore, acquatico passo verso di te.
“NO!, LÌ C’È IL MIO RAGAZZO!”, esclami difensiva; e basta questo, basta girarsi ad indicargli il punto in cui lui sta nuotando e nuotando laggiù, vicino alle rocce affioranti, per farli girare sui tacchi con un “Ah… allora ciao” di commiato.
Incazzata e spaventata, li osservi dirigersi a riva, la testa appena un po’ bassa, a caccia di nuove prede femminili da accerchiare. Fissi a lungo le loro schiene elastiche di uomini in erba, il loro farsi sempre più piccole non basta a tranquillizzarti. Il loro sguardo, non era lo sguardo dei vent’anni. È quello che ti ha messa in allarme, è quello che non riesci a scrollarti di dosso e non ti permette di sentirti perfino lusingata, di fare spallucce e tornare a goderti l’abbraccio del mare.
Anzi, ti giri di nuovo verso le rocce per controllare che lui stia finalmente arrivando: lento, ignaro di pericoli veri o immaginari, nuota ancora a dorso. Lui sì, che si sta godendo il mare.

E cerca di rilassarti pure tu allora, una buona volta. Ahhh, ma che meraviglia quest’acqua ondulata color latte, ma com’è calda, e che pace, e che belle quelle nuvole rosa lassù, sospese a decorare il cielo color lilla…..
…..Ma guarda un po’ quei due stronzetti! Ma che si credevano di fare, qua in spiaggia, con te che potresti essergli madre? Ma perché questa cosa, questa stupidaggine, ti ha dato così fastidio? Ma perché il mare non ha più lo stesso effetto su di te adesso, e non vedi l’ora di tornartene sotto l’ombrellone, non vedi l’ora che lui torni dalla sua lunga nuotata?
Siamo o non siamo nel XXI secolo? E allora, perché quei due non li hai mandati a quel paese con un sorriso, invece di indicargli prontamente il maschio alfa che all’occorrenza avrebbe potuto difenderti? Perché non hai saputo difenderti da sola, almeno a parole (ovviamente, a mente più o meno fredda ti vengono in mente almeno un paio di rispostacce adeguate a quel “Sei sola?”, dal semplice ma sempre efficace: “E a te che te ne frega?”, al più sottile e soave: “No, aspetto tua sorella!”), perché questo innato terrore primordiale? E soprattutto: ma possibile che due bei ragazzi così giovani, due modellini per rivistina tardoadolescenziale, non abbiano di meglio da fare la domenica pomeriggio in spiaggia che abbordare in maniera tanto diretta e grezza una sconosciuta? Che razza di educazione relazionale e affettiva avranno ricevuto? Quella che si può trovare su internet, congetturi, mentre racconti acida l’accaduto a lui che finalmente ti ha raggiunta sotto l’ombrellone, soddisfatto dopo la sua lunga maschia nuotata:
“Di sicuro sono due affezionati frequentatori di YouPorn!”, spari, nel tentativo di dare sfogo alla bile e alla strizza accumulate. E lui ti darà dell’esagerata, forse; forse anche scherzerà, alludendo all’attrazione dei ragazzi della loro età per le milf; forse anche ti dirà che gli dispiace, strizzandoti un braccio e circondandoti protettivo le spalle; forse anche proverà a sdrammatizzare, facendo commenti ammirati sul tuo discreto stato di conservazione; forse anche potrà guardare storto i due stronzetti che poi vi ripasseranno davanti, di ritorno dalla loro infruttuosa passeggiata; ma purtroppo non potrà mai, mai capire davvero cosa vuol dire: ritrovarsi da sola a mollo nel molle mare d’agosto, con due giovani sconosciuti a un braccio di indesiderata distanza.