Arriva il momento in cui si impongono. Soffocano i tuoi tentativi di zittirle, di non starle a sentire, di rimandarle a tempi migliori, più rilassati, più comodi, più vitali: tempi con più tempo. Tempi in cui il tempo non è divorato, rubato, o irritabilmente sprecato; ma guadagnato, assaporato e felicemente perso.
Le ragioni del corpo hanno sempre ragione; non devi quindi stupirti se, quando trovano voce, il loro tono è perentorio, inesorabile. Il corpo, infatti, non vuole sentire (le tue) ragioni. Esasperato dalla lunga attesa, se ne frega delle sacrosante scuse che gli hai opposto ogni giorno, per mesi, ogni volta che, a voce ancora sommessa, provava a ricordarti che, nella tua adulta vita di impegni, doveri e preoccupazioni, c’era anche lui; e che non gli bastavano quei pochi risicati piaceri da fine settimana per funzionare a dovere, per esserti felice compagno di vita.
Lo hai schiavizzato e ignorato quando ti chiedeva un’attenzione vigile e premurosa, blandito con ascolti distratti e buoni propositi, automatismi salutari senza cuore, fatti solo per metterti a posto la coscienza: Lo vedi, corpo, che a te ci penso? Ti porto a correre ogni tanto; ti nutro bene, forse pure troppo; adesso non ho tempo per fare altro, ma vedrai, con la bella stagione…
Lui però non ci è mica cascato. Vuole com-partecipazione, pratica e attiva, costante, non una sequela di intermittenti abitudini sane solo in teoria; vuole che dai orecchie ai suoi messaggi, occhi ai suoi segnali, bocca per alimentarlo di quello che gli serve in un dato momento specifico, non di quello che tu hai già preparato in tutta fretta e adesso fai il bravo e mangia questa minestra, corpo: quello che ti va, lo cucinerò un’altra volta.
Ogni tanto pensavi che sarebbe stato il caso di toccarlo un po’ di più, per fargli sentire che ci sei ancora, che di lui ti importa e molto: che non era solo il tuo schiavo e servitore, ma amico e complice. No, sarebbe troppo difficile, fermarsi… tu hai fretta, non hai tempo, ma ragioni che ti spingono avanti-avanti-avanti: così lo hai dato per scontato, come un buon acquisto, un “buon usato” senza brutte sorprese, fedele negli anni. Gli hai imposto, invece, sforzi improvvisi, ritmi militari, rimandando al contempo le visite specialistiche, l’acquisto di nuove scarpe da running, l’iscrizione in piscina quando lui ti chiedeva Acqua! Acqua!!, Acqua!!! Ci avresti pensato dopo, alla sua sete di nuoto; quando avresti avuto più tempo.
Così lui ha smesso di mormorare ed implorare. Il primo urlo l’hai sentito in un tardo pomeriggio, mentre uscivi di corsa dall’ufficio temendo di perdere il treno; ha urlato attraverso le tue vertebre lombari, L2-L3, bloccandole in una morsa agghiacciante e allo stesso tempo elettrica: una saetta di puro dolore ha fatto zig-zag nella tua colonna, L2-L3, fin su al cervello, e poi di nuovo giù, L2-L3, L2-L3, scaricandotisi infine nei lombi.
Ammutolisci. Arranchi come un centenario alla fermata del treno, mentre le tue vertebre lombari continuano incazzate ad ululare L2-L3, L2-L3. Arriverai dopo un secolo a casa, finalmente, e scoverai in un cassetto l’ultima pillola di antidolorifico – zitto, corpo, zitta, schiena! Qui c’è gente che lavora. Che deve dormire. Che domani deve alzarsi presto. E loro si zittiscono: non del tutto, giusto il tanto che basta a farti rattrappire, cauta, su un fianco e addormentarti.
(continua)
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