Ero poco più di una bambina, avevo una famiglia molto tradizionale e idee ancora astratte sulla meccanica del sesso quando una sera mi ritrovai sprofondata nel divano, seduta a fianco dei miei genitori, a guardarla e soprattutto ad ascoltarla, trasmessa in bianco e nero dal Philco del salotto.
Fino ad allora il televisore per me era stato un giocoso soprammobile, col suo succedersi di Caroselli, fumettintivvù, happydays e — supremo brivido nella lotta contro il sonno — l’inquietante sigla notturna di fine programmi Rai.
Non capivo come mai i miei avessero deciso di non spegnerlo, quella sera, e di stare a sentire quella bionda, eterea, bella e colta attrice raccontare una cruda verità, usando termini che avevo sentito soltanto sulla bocca dei peggiori bulletti del mio quartiere popolare; termini che mi era assolutamente vietato non dico pronunciare, ma anche solo pensare. Monologate dalla splendida maschera da teatro greco di Franca Rame, adesso quelle parolacce indicibili, insieme alle immagini intollerabili che evocavano, erano rivolte a noi, proprio a noi tre, impietriti lì sul divano. Risuonavano nel buio del salotto, amplificate dal nostro silenzio, come le lente preghiere di un prete che dice messa solenne.
Il teatro può essere sacro, questo lo avrei imparato all’università; il teatro può essere denuncia, catarsi, vendetta, civiltà.
Nel mentre, ho quasi odiato i miei per avermi obbligata ad assistere a quello Stupro. Poi ho capito che mi avevano fatto un grande favore a non cambiare canale, a non censurarmi la violenza e l’orrore, allo stesso modo in cui da piccola mi avevano portato a dare l’ultimo saluto ai nonni composti nelle bare ancora aperte; e che ascoltare, guardare, sopportare Franca Rame era stato un gesto civile, partecipe e solidale, come votare.
Da quella sera e per sempre, per me Franca Rame vive.